RES PUBLICA LITTERARUM

 
 


DANTE ALIGHIERI
(Firenze, 22 maggio 1265 - Ravenna, 14 settembre 1321)

Dante Alighieri è il "sommo poeta", lo scopritore della lingua italiana (De Vulgari Eloquienta) , il filosofo della laicità dello Stato ma dell'importanza della religione in esso e nella dimensione spirituale di ogni uomo che deve cercare la salvezza di Dio (De Monarchia - Comedia) e colui, in sintesi, che, perché uomo di genio e di Musa, vissuto in una delle cattedrali della cultura medievale italiana, a stretto contatto ma anche a debita distanza tra l'arroganza romana del Papato e l'eccessivo arrembaggio degli imperatori del Sacro Romano Impero e le grandi famiglie aristocratiche dei Comuni del Nord, Dante, e solo Dante, è colui che ha saputo più e meglio ed ineguagliabimente provveduto a colmare il passaggio da una civiltà letteraria tardoantica ad una più moderna, eternando la prima nella metamorfosi infantile dell'altra.

Sapete perché amo Dante? Perché è l'unico che per primo si è accusato modernamente.

GIACOMO LEOPARDI
(Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837)

 E', invece, Giacomo, un letterato dalla grandezza morale altrettale; io lo definisco il Dante moderno, abbenché disdegni di affibiare titoli tali come il "Cicerone latino" o simili. Ognuno è sè per talento, fato e volontà.
Di suo quello leopardiano è il più grande talento della storia mondiale, fato gliene mancò leggendolo egli come avverso prima e poi casuale, mentre la volontà fu intermittente.
Giacomo Leopardi è, piuttosto che il Dante moderno, un cristo! Questo sì, si può dire: Giacomo Leopardi è un'altra "pietra angolare scartata dai costruttori" la quale "è divenuta testata d'angolo". Ha avuto la stessa sorte del suo primo e giovanile mito: Gesù Cristo.
Infatti, maltrattato, deriso, truffato, sedotto, abbandonato si è accigliato, imbrutito, chiuso come palese e come normale. Come unico suo sfogo lo studio, le "sudate carte", la poesia, il carme, la Musa.
Quando ha messo il suo dolore nei suoi canti ha prodotto una magia, una musica, una tensione, un'osservazione tale che ci riempie l'anima, ci stordisce i sensi e ci rabbrividisce.
Però, mentre quei vari che lo umiliavano sono passati e nessuno di loro ha lasciato chissà quali ricordi e le emozioni, se le generarono, sono state cassate da qualche passeggiata del tempo, Giacomo è morto ignobilmente, quasi gettato nelle fosse comuni, (Antonio Ranieri ha ottenuto il suo corpo, come un Giuseppe di Arimatea, e gli ha dato degna sepotura - chissà che, infine, non c'entri anche il fato!) e quando è passato l'astio odioso e barbaro che ha fatto ignorare un genio dei secoli ad un secolo tanto brutto, Giacomo è risorto, sì risorto, e vive nei suoi canti.
I Canti, dunque, sembrano le Beatitudini, sembrano dei richiami classici a qualcosa di più antico dei classici, a qualcosa di sempre stato: di eterno.


GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI
(Roma, 7 settembre 1791 - Roma, 21 dicembre 1863)
Belli è, invece, un'anima scissa: per metà spiritata, per l'altra profondamente disgustata dalla Chiesa dell'epoca ( e come dargli torto?)
Il vernacolo, il dialetto, quella lingua speciale e dal sangue così latino, come il romanesco, così frizzate, vocalw, tronco, per vocazione incline alla battuta ed al motteggio, nella penna del Belli diventa un mondo di contadini, artigiani e paini, di rivoluzionari e papalini conservatori bigotti. Diventa la Roma di un'epoca, un ritratto talmente fedele da commuovere ancora, camminando nei luoghi di quel suo tanto tragicomico teatro.


CESARE PAVESE
(Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 - Torino, 27 agosto 1950)
La profondità di Pavese sta tutta nel suo gioco naturale e spietato del rintracciare e smascherare la superficialità del proprio tempo.
Avendo una predisposizione all'osservazione, direi, "darwiniana" della società prima italiana, poi anglo-americana ed infine universale ed umana, Cesare conduce un certosino lavoro di ricucitura dello strappo filosofico-spirituale accusato nel corso e nel post secondo conflitto mondiale.
Egli, nato in quel Piemonte ombroso dove sono collinacce smunte e semialpestri a delimitare lo sguardo fuorviato del pellegrino che vi transiti, dalle sue piccole complicazioni di paese, dalla vita leopardiana del borgo, dall'immutato ed immutabile vivere dei poveri contadini, egli scrive il capolavoro di chi fa la guerra e crede di vincerla, deve accettare di perderla, deve inorridirsi e fuggirla. Alla fine tutti, proprio tutti, sono "vinti", perché in una guerra non ci sono vincitori. Egli in modo quasi irripetibile lo ha denunciato, osservando in prima persona la pena di scontare un coraggio di morire che il "mestiere di vivere" non ci da a prescindere ma ci chede il coraggio di cercare. Senza Pavese oggi quel periodo non sarebbe così chiaro: che lo si veda con gli occhi del fascista, del partigiano, del cattolico, del contadino, dell'intellettuale esule, dell'emigrante di ritorno, delle donne o dei bambini, il mondo di Pavese non sono solo le Langhe ma tutta una generazione.

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